Pubblicato il: 25/05/2025
Uno dei due attori lamentava, in particolare, di aver patito danni al motociclo di sua proprietà, guidato al momento dell'incidente dall'altro attore che – a sua volta – chiedeva al giudice un ristoro per le lesioni subite con la caduta sull'asfalto, provocata da un dosso non segnalato. Il Comune si opponeva alle richieste risarcitorie degli uomini, evidenziando una concorrente responsabilità del conducente ferito.
Dopo un primo grado favorevole ai cittadini, in appello la magistratura – pur inquadrando l'accaduto nell'ambito del citato art. 2051 c.c. – indicava che la responsabilità dell'ente comunale per danni provocati a chi transita su strada pubblica, anche per motivi legati a una scarsa o assente manutenzione della strada di proprietà del Comune stesso, doveva essere esclusa qualora l'incidente fosse scaturito dalla negligenza e disattenzione del guidatore del mezzo a motore. Al contempo – affermavano i giudici – in riferimento ai danni cagionati dalle strade di proprietà, la responsabilità del Comune sussiste soltanto in caso di prova, da parte del danneggiato, dell'esistenza di una situazione oggettivamente a rischio di incidente, perché caratterizzata dal un pericolo oggettivamente non visibile e dalla sua conseguente non prevedibilità.
Questa ricostruzione della responsabilità ex art. 2051 c.c. era sfavorevole a chi aveva chiamato in causa la P.A., in quanto non riconosceva la responsabilità oggettiva per danni da cose in custodia. Secondo gli avvocati dei due cittadini, per la sua configurazione è infatti sufficiente la mera prova del nesso causale tra la condizione della "res" custodita (in questo caso il cattivo stato del manto stradale) e l'evento danno. Ne seguì il ricorso in Cassazione.
La Corte, ribadendo un ormai costante orientamento (si vedano i precedenti conformi Cass. 4051/2024 e Cass. 5116/2023), ribaltò l'esito del secondo grado, accogliendo le richieste di coloro che avevano citato in giudizio il Comune e stabilendo che – effettivamente – la Corte territoriale aveva fatto erronea applicazione del citato articolo civilistico. In particolare, secondo i giudici di piazza Cavour:
- la responsabilità per cose in custodia di cui all'art. 2051 c.c., ha natura oggettiva, perché si basa esclusivamente sulla dimostrazione del rapporto di collegamento causale tra la cosa in custodia e il danno, non già su una presunzione di colpa del custode;
- chi ha subito il danno non deve provare la natura insidiosa della cosa, o la non visibilità e non percepibilità ed evitabilità del pericolo da parte del danneggiato. Tali concetti, infatti, sono estranei alle regole civilistiche sulla responsabilità di cui si discute.
In passato, ottenere un risarcimento era più difficile, perché il precedente e prevalente orientamento giurisprudenziale imponeva al danneggiato di provare non soltanto il danno e il collegamento con la strada dissestata o non adeguatamente manutenuta, ma anche che quel difetto fosse una cosiddetta "insidia o trabocchetto", ossia un pericolo nascosto, non visibile e non prevedibile.
Concludendo, l'art. 2051 c.c. – configurando una responsabilità oggettiva – alleggerisce l'onere probatorio di chi subisce il danno da cosa in custodia. In casi come questo, inerenti gli incidenti da circolazione stradale, il custode (ad es. il Comune) è ritenuto responsabile dei danni prodotti dalla “cosa” che ha in custodia (la strada) per il solo fatto che la cosa stessa ha materialmente causato il danno, per una sua caratteristica o un suo difetto. Perciò l'automobilista o il motociclista non deve dimostrare la colpa del custode, ovvero la sua negligenza, imprudenza o imperizia nella manutenzione, perché – lo ribadiamo – la responsabilità sorge oggettivamente dal legame tra la cosa custodita (la strada dissestata, con buca, dosso o altra irregolarità) e l'evento dannoso.
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