Pubblicato il: 08/07/2025
Nel caso oggetto della pronuncia degli Ermellini, alcuni tecnici impiegati in una società per interventi di manutenzione presso clienti esterni avevano chiesto il riconoscimento delle ore di viaggio effettuate ogni giorno, dall’ingresso in azienda fino al primo intervento e poi dal rientro serale in sede. L’azienda però, in forza di un accordo sindacale interno, retribuiva solo i tempi di percorrenza eccedenti i 30 minuti complessivi e registrati tramite un servizio di geolocalizzazione installato sull’auto aziendale.
Cosa ha stabilito la Corte
La Cassazione, tuttavia, ha dichiarato nullo l’accordo per violazione della normativa vigente, ossia il comma 2 dell’art. 1 del D.lgs. 8 aprile 2003, n. 66, che definisce quale orario di lavoro “qualsiasi periodo in cui il lavoratore sia al lavoro, a disposizione del datore di lavoro e nell'esercizio della sua attività o delle sue funzioni”.
In altre parole, i giudici della Suprema Corte hanno chiarito che:
- il tempo necessario a prendere istruzioni, caricare materiali e raggiungere la sede del cliente rientra nell’orario di lavoro;
- non è ammissibile introdurre franchigie orarie (es. i primi 15 minuti non retribuiti);
- gli spostamenti effettuati con mezzi aziendali sotto il controllo diretto del datore di lavoro sono a tutti gli effetti attività lavorativa;
- gli accordi aziendali che riducono i diritti previsti dalla legge sono inefficaci e non opponibili al dipendente.
Uno degli aspetti più importanti della pronuncia è proprio la declaratoria di nullità di qualsiasi forma di “accordo interno” che cerchi di limitare la retribuzione spettante a ciascun lavoratore per le ore di viaggio svolte durante l’attività lavorativa. La legge prevale su qualsiasi pattuizione contraria, anche se condivisa con le rappresentanze sindacali.
Quindi, se un contratto prevede che solo una parte del tragitto venga pagata, o se viene escluso il tempo necessario per recarsi sul posto, tale clausola è da considerarsi automaticamente nulla.
Effetti della pronuncia
L’impatto della pronuncia della Cassazione è sicuramente importante. La decisione degli Ermellini, infatti, costituisce un importante precedente che riguarda non solo i tecnici manutentori, ma tutti i lavoratori che svolgono attività itineranti, come ad esempio operatori on-site, trasfertisti, installatori, manutentori, tecnici informatici, addetti all’assistenza post-vendita.
La ratio di tale orientamento risiede nel potere di eterodirezione esercitato dal datore di lavoro: infatti, tutti coloro che si muovono seguendo indicazioni aziendali non sono liberi. Per tale motivo, essi devono essere retribuiti anche durante gli spostamenti.
La decisione della Cassazione si colloca nel solco di altri orientamenti già espressi, come ad esempio in materia di “tempo tuta” (cioè il tempo dedicato alla vestizione o svestizione con DPI obbligatori), per cui anche le fasi preparatorie e conclusive della prestazione vanno incluse nel computo orario.
Cosa devono fare i lavoratori (e le imprese)
Se un’azienda non corrisponde il pagamento del tempo di viaggio, il lavoratore può agire a tutela dei propri diritti, al fine di ottenere il riconoscimento delle spettanze non versate. L’azione può essere giudiziaria oppure stragiudiziale (con l’assistenza di sindacati o legali del lavoro).
Con riferimento alle aziende, invece, il suggerimento è quello di rivedere eventuali regolamenti interni o accordi sindacali che prevedano limiti, franchigie o esclusioni in materia, al fine di non rischiare di incorrere in contenziosi con esito prevedibile.
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