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Lavoratore, puoi essere licenziato se rifiuti di fare più ore di lavoro e sei in part-time: ecco la Cassazione

Pubblicato il: 15/07/2025

In Italia, la legge prevede che l'orario di lavoro normale sia di 40 ore settimanali. Però, spesso, i contratti collettivi nazionali di lavoro (CCNL) prevedono un orario settimanale più basso (ad esempio, di 37 ore settimanali).

Quando il contratto individuale di lavoro prevede l'orario di lavoro normale settimanale, allora è un contratto a tempo pieno. Invece, se il contratto individuale prevede un orario più basso di quello normale (ad esempio, solo 20 ore settimanali), si tratta di un part-time.

In linea di massima, se hai diritto al passaggio in part-time, il datore di lavoro non potrà scegliere: tu chiedi, lui accoglie. Se la legge dice che non hai questo diritto, il datore di lavoro potrà liberamente decidere se accettare o meno la tua richiesta.
Ebbene, il legislatore prevede questo diritto per i lavoratori del settore pubblico e privato con ridotta capacità lavorativa, poiché colpiti da malattie oncologiche o gravi patologie cronico-degenerative che peggiorano con il tempo (ad esempio, sclerosi multipla).

Ancora, sussiste il diritto al part-time anche per i lavoratori neogenitori che, invece di sfruttare il congedo parentale, chiedono la trasformazione in part-time, a condizione che ci sia una riduzione dell'orario al massimo del 50%.
Inoltre, pure le lavoratrici che hanno subito violenza di genere hanno questo diritto, ma a patto che ci sia disponibilità in organico.

Peraltro, ci sono casi in cui la legge non riconosce un diritto, ma una priorità del lavoratore, rispetto ad altri dipendenti, nel passaggio al part-time.
Il contratto part-time è regolato in modo rigoroso dalla legge, perché non rappresenta solo una scelta aziendale legata alla flessibilità produttiva, ma risponde anche a precise esigenze di tutela sociale. Il lavoro a tempo parziale ha lo scopo di favorire l'inclusione occupazionale, permettendo una migliore conciliazione tra vita privata e attività lavorativa e garantire una piena parità di trattamento rispetto ai lavoratori a tempo pieno.

Per questo motivo, il datore di lavoro non ha totale libertà nelle scelte organizzative: deve sempre tenere conto dei diritti del personale. Tuttavia, ci sono situazioni in cui le esigenze aziendali possono prevalere e rendere legittimo il licenziamento di un lavoratore part-time che rifiuta modifiche all'orario.
Un esempio concreto arriva dalla Cassazione con la sentenza n. 9901/2025 depositata lo scorso 15 aprile, che ha chiarito in quali casi è possibile procedere con un licenziamento di questo tipo. Questa decisione della Cassazione rappresenta un punto di equilibrio tra la tutela dei diritti del lavoratore part-time e le esigenze di efficienza aziendale. Il contratto part-time rimane uno strumento di inclusione e parità, ma non può essere utilizzato come barriera insormontabile se l'organizzazione del lavoro cambia in modo sostanziale.
Il lavoratore ha comunque il diritto di impugnare un licenziamento che ritiene ingiusto, ma è fondamentale, prima di procedere, valutare attentamente il contesto e verificare – con l'assistenza di un legale – se il datore ha rispettato tutti gli obblighi previsti dalla legge e dalla giurisprudenza.

Vediamo i dettagli.

Il caso
Una lavoratrice, assunta part-time come addetta alla contabilità, aveva ricevuto una proposta di trasformazione del contratto in full-time, con conseguente aumento della retribuzione. La donna, però, aveva rifiutato, preferendo mantenere l'orario ridotto. L'azienda, a quel punto, l'aveva licenziata per giustificato motivo oggettivo, legato alle mutate esigenze produttive e all'impossibilità di organizzare diversamente il lavoro.
La lavoratrice aveva impugnato il licenziamento, ma la Corte d’Appello aveva dato ragione all’azienda, evidenziando l’impossibilità di ridistribuire il carico di lavoro, aumentato per via della crescita della clientela. Non era praticabile né l’aumento del lavoro straordinario né l’assegnazione della dipendente ad altre mansioni.


Il verdetto della Cassazione
La dipendente ha presentato ricorso in Cassazione, sostenendo che il rifiuto di cambiare orario non poteva costituire motivo valido di licenziamento. E in effetti, la legge è chiara: l'articolo 6 del D. Lgs. 81/2015 afferma che il semplice rifiuto del lavoratore part-time di accettare un aumento dell'orario non giustifica il licenziamento.
Tuttavia, la Cassazione ha confermato la legittimità del recesso. Come mai?
Perché, secondo i giudici, non si trattava di una richiesta arbitraria dell'azienda, ma di una necessità effettiva e documentata. Non c'erano soluzioni alternative per ridistribuire il carico di lavoro né erano disponibili altre mansioni compatibili (obbligo di repêchage). La lavoratrice svolgeva attività specifiche all'interno di una struttura organizzativa rigida, e il rifiuto di ampliare l'orario rendeva impossibile una riorganizzazione efficiente.

Allora quando è legittimo il licenziamento del part-time che rifiuta il full-time?
La citata sentenza n. 9901/2025 fissa alcuni principi guida per le aziende e i lavoratori:

  • il rifiuto di passare al tempo pieno, da solo, non basta a giustificare un licenziamento;
  • il licenziamento è legittimo solo se il datore di lavoro dimostra l'assenza di alternative organizzative e l'impossibilità di ricollocare il lavoratore in altra mansione;
  • l'azienda deve sempre agire nel rispetto dei principi di correttezza e buona fede (art. 1375 c.c.).
In sostanza, non si può costringere un lavoratore a cambiare orario, ma se il rifiuto rende insostenibile la gestione dell'attività, e se non ci sono altre opzioni valide, il licenziamento può essere considerato giustificato.

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