Pubblicato il: 21/08/2025
Tale percentuale è pari al quaranta per cento dell'indennità totale, riferibile agli anni in cui il rapporto di lavoro è coinciso con il matrimonio.
La sussistenza di tale diritto è subordinata a due requisiti:
- che l’aspirante percettore della quota di TFR dell’ex non si sia risposato;
- che ella o egli sia titolare di assegno divorzile ex art. 5 della legge divorzio.
La pronuncia che ci accingiamo a esaminare (Cassazione Civile, Sez. I, sentenza 18 luglio 2025, n. 20132) si occupa della specifica questione della spettanza o meno di una percentuale del TFR dell’ex, qualora l’indennità di fine rapporto sia stata versata in un fondo pensione prima dell'avvio della procedura di divorzio.
I fatti di causa e le decisioni di merito
Riassumendo la vicenda processuale, il Tribunale di Lodi aveva accolto la domanda della ex moglie, volta a ottenere la “propria” quota di TFR del marito. Quest’ultimo, pertanto, era stato condannato al pagamento di una somma notevole (più di 98mila euro, oltre interessi legali).
Nel procedimento era stato acclarato che il marito aveva versato l’intero importo del TFR nel Fondo di previdenza complementare, e che ciò era avvenuto prima della proposizione della domanda di divorzio.
La Corte d’Appello aveva, però, ribaltato la decisione del Tribunale.
Stando alla sentenza di secondo grado, la stessa formulazione dell'art. 12-bis L. n. 898 del 1970 impone di limitare l'importo dovuto al titolare dell'assegno divorzile alla somma percepita dall'ex coniuge al momento della cessazione del rapporto di lavoro, evidenziando come – secondo quanto precisato dalla stessa giurisprudenza di legittimità – da tale importo dovessero essere escluse le somme incassate in forma anticipata dal lavoratore durante la convivenza matrimoniale o la separazione personale, in quanto definitivamente entrate nell'esclusiva disponibilità dell'avente diritto.
Sempre la Corte territoriale rilevava che la riforma previdenziale (D.Lgs. n. 252 del 2005) ha previsto la possibilità, per il lavoratore, di mantenere il proprio TFR in azienda o di destinarlo ad un qualsiasi fondo di previdenza complementare, precisando che il rapporto tra lavoratore e Fondo di Previdenza Complementare è di natura contrattuale e consente al lavoratore il conseguimento di una prestazione previdenziale integrativa.
In altre parole – chiosa la Corte d’Appello – il TFR ha natura retributiva, ma il TFR conferito al Fondo Previdenziale dal datore di lavoro assume natura previdenziale. Il TFR, inoltre, viene percepito al momento della cessazione del rapporto di lavoro, mentre le somme erogate dal Fondo Pensionistico vengono erogate al raggiungimento dei requisiti per la percezione della pensione.
La pronuncia della Cassazione
La ex moglie, sconfitta in appello, formulava un unico motivo di ricorso per cassazione, consistente nella dedotta violazione dell'art. 12-bis della legge sul divorzio, nella parte in cui la Corte d'Appello aveva escluso l'applicazione di tale disposizione nel caso di specie, ove l'ex coniuge – obbligato al pagamento dell'assegno divorzile – aveva proceduto al versamento del TFR in un Fondo di Previdenza Complementare, in unica soluzione, poco prima dell'instaurazione del giudizio di divorzio.
Secondo la ricorrente, l’ex marito avrebbe in tal modo commesso, oltretutto, un vero e proprio abuso del diritto, aggirando gli obblighi imposti, appunto, dalla norma in questione.
Limitatamente a tale specifica censura, peraltro, i giudici di legittimità hanno dichiarato senz’altro l’inammissibilità del ricorso, in quanto essa non risultava prospettata nelle precedenti fasi di merito.
Quanto alla presunta violazione, da parte della Corte d’Appello, dell’art. 12-bis della L. 898/1970, gli Ermellini hanno concluso per l’infondatezza del motivo di impugnazione.
Premette la Corte che il TFR dei lavoratori è regolato, per il settore privato, dall'art. 2120 del c.c., ove si prevede che "in ogni caso di cessazione del rapporto di lavoro subordinato" (e, quindi, indipendentemente dalle motivazioni che l'hanno determinato), "il prestatore di lavoro ha diritto ad un trattamento di fine rapporto".
La S.C. ricorda poi l’orientamento ormai consolidato in giurisprudenza, secondo cui il TFR ha natura retributiva, costituendo un elemento della retribuzione il cui pagamento viene, tuttavia, differito al momento della cessazione del rapporto di lavoro. Esso matura durante lo svolgimento del rapporto ed è costituito dalla somma degli accantonamenti annui di una quota della retribuzione, rivalutata periodicamente.
Il TFR maturato costituisce, dunque, a tutti gli effetti, un credito del lavoratore certo e liquido, di cui la cessazione del rapporto di lavoro determina l'esigibilità.
Quindi la Corte opera la distinzione tra:
- TFR maturato, vale a dire, in sintesi, quello già determinato, anche se non ancora erogabile prima della cessazione del rapporto di lavoro;
- TFR maturando, il quale, rispetto al momento in cui è considerato, costituisce in credito futuro, che maturerà a seguito dell'esecuzione delle prestazioni lavorative non ancora poste in essere.
Tuttavia, solo la percezione del trattamento rende esigibile la quota di spettanza dell'ex coniuge, essendo previsto il diritto di quest'ultimo "ad una percentuale dell'indennità di fine rapporto percepita dall'altro coniuge".
Pertanto, spiega la Corte, il diritto alla quota del trattamento di fine rapporto da parte dell'ex coniuge titolare dell'assegno di divorzio, anche se sorge quando l'altro coniuge cessa il rapporto di lavoro, è esigibile solo se quest'ultimo percepisce il relativo trattamento.
Ciò non significa che, al momento della proposizione della domanda ex art. 12-bis, l’ex coniuge debba avere già incassato l’importo su cui calcolare la quota da corrispondere all’altro, essendo sufficiente che sia stato percepito al momento della decisione.
Un’altra precisazione è quella per cui la quota spettante all'ex coniuge va quantificata sulla scorta del TFR netto corrisposto, e non sul lordo.
Fatte tali premesse, la S.C. chiarisce che il disposto dell'art. 12-bis deve essere interpretato nel senso che il diritto alla quota sorge soltanto se l'indennità spettante all'altro coniuge diviene esigibile, e viene percepita, al momento della proposizione della domanda introduttiva del giudizio di divorzio o dopo tale momento, ma non anche quando essa diviene esigibile prima, e cioè durante la vita matrimoniale o in costanza di separazione dei coniugi.
Trattasi di orientamento costante (Cass., Sez. 1, Sentenza n. 5553 del 07/06/1999; Cass., Sez. 1, Sentenza n. 12995 del 23/10/2001; Cass., Sez. 1, Sentenza n. 13425 del 13/09/2002; Cass., Sez. 1, Sentenza n. 14997 del 08/10/2003; Cass., Sez. 1, Sentenza n. 19309 del 17/12/2003; Cass., Sez. 1, Sentenza n. 25520 del 16/12/2010; Cass., Sez. 6-1, Ordinanza n. 14129 del 20/06/2014; Cass., Sez. 6-1, Ordinanza n. 7239 del 22/03/2018; Cass., Sez. 1, n. 17154 del 15/06/2023).
Pertanto, se l'indennità di fine rapporto diventa esigibile, per il lavoratore, prima della proposizione della domanda, essa non dà diritto ad alcuna quota (v. in particolare Cass., Sez. 1, Sentenza n. 5553 del 07/06/1999 e Cass., Sez. 1, Sentenza n. 19427 del 18/12/2003).
Trattasi di orientamento avallato altresì dalla Corte Costituzionale (Ordinanza n. 463 del 19/11/2002).
Inoltre, la Cassazione rammenta di aver già escluso l'operatività dell'art. 12-bis L. n. 898 del 1970 anche con riguardo ad acconti o anticipazioni del TFR, percepiti dall'ex coniuge prima della domanda di divorzio.
Sappiamo, infatti, che al lavoratore è riconosciuto il diritto di chiedere – per una sola volta nel corso del rapporto di lavoro – un'anticipazione del trattamento al quale avrebbe diritto in caso di risoluzione del rapporto alla data in cui viene formulata la relativa domanda (art. 2120 c.c.). Per poter richiedere l'anticipazione – che è cosa diversa dall'eventuale acconto, chiesto prima delle liquidazione integrale del TFR dopo la cessazione del rapporto di lavoro – è necessario che ricorrano alcuni specifici requisiti soggettivi e oggettivi, salve le previsioni di maggior favore eventualmente contenute nei contratti collettivi o negli accordi individuali.
Ora, secondo il Supremo Collegio, non si deve tenere conto, ai fini dell'operatività dell'art. 12-bis L. n. 898 del 1970, del TFR percepito dal coniuge durante la convivenza matrimoniale o la separazione personale, poiché tali somme sono ormai entrate nell'esclusiva disponibilità dell'avente diritto prima dell'insorgenza del diritto all'assegno divorzile (che costituisce presupposto per poter richiedere la quota di TFR).
Ci avviciniamo ora alla soluzione della questione sottoposta all’attenzione della Corte di Cassazione.
La disposizione con cui il lavoratore attribuisce al datore di lavoro il compito di conferire il TFR costituisce una modalità di conferimento nel Fondo. Una volta che il datore di lavoro ha adempiuto a tale incarico secondo le indicazioni del lavoratore, le somme versate nel Fondo non fanno più parte del TFR da liquidare a quest'ultimo al momento della cessazione del rapporto di lavoro.
In tal modo, il lavoratore compie un atto dispositivo del suo diritto di credito al TFR, consentito dal sistema normativo vigente, anche se tale credito è ancora futuro (TFR maturando) o non è ancora esigibile (TFR maturato, ma in pendenza di rapporto di lavoro), e, una volta che il versamento è effettuato, viene meno l'obbligo del datore di lavoro di corrispondere al lavoratore il TFR che ha versato.
Si tratta di un atto negoziale che, anche se non comporta la percezione delle corrispondenti somme da parte del lavoratore, dal punto di vista del rapporto di lavoro, produce gli stessi effetti della percezione di anticipazioni sul TFR in costanza di rapporto di lavoro, perché, si ribadisce, il TFR versato al fondo non è più dovuto dal datore di lavoro al lavoratore.
Ciò significa che, se il conferimento del TFR nel fondo è anteriore all'introduzione del giudizio di divorzio, il coniuge avente diritto all'assegno divorzile successivamente riconosciuto non può vantare alcun diritto sul TFR versato.
Ovviamente ciò non significa – osserva la Corte – che la percezione delle prestazioni di previdenza complementare, ad esempio mediante l'erogazione di una rendita periodica, non possa essere considerata ai fini della quantificazione dell'assegno di divorzio, come peraltro avvenuto nel caso in esame.
In conclusione, la Corte ha respinto il ricorso, enunciando il seguente principio di diritto:
"In tema di divorzio, il disposto dell'art. 12 bis L. n. 898 del 1970, nella parte in cui attribuisce al coniuge titolare dell'assegno divorzile che non sia passato a nuove nozze il diritto ad una quota dell'indennità di fine rapporto dell'altro coniuge, non si applica agli atti di disposizione del TFR consentiti dall'ordinamento, quali sono i conferimenti in un Fondo di Previdenza Complementare del TFR già maturato, ove siano eseguiti prima della proposizione della domanda di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio, fermo restando che le eventuali prestazioni di previdenza complementare successivamente conseguite per effetto di tali conferimenti, in presenza degli altri requisiti di legge, possono incidere sulla quantificazione o sulla modifica dell'assegno divorzile".
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