Pubblicato il: 13/09/2025
La vicenda che ha portato alla storica ordinanza n. 24564 del 4 settembre 2025 della Cassazione racconta di un letturista che, nel 2019, aveva mostrato performance decisamente al di sotto delle aspettative. I suoi risultati erano nettamente inferiori non solo agli obiettivi prefissati dall'azienda, ma anche rispetto ai colleghi che svolgevano le stesse mansioni. Questo dato oggettivo, precisano i giudici della Suprema Corte, non è stato automaticamente motivo di licenziamento, ma ha rappresentato quello che viene definito uno "spunto oggettivo" per avviare controlli più approfonditi.
L'azienda, infatti, non ha agito d'impulso ma ha aspettato l'anno successivo per mettere in campo un'indagine sistematica sulla condotta del dipendente. Una strategia che si è rivelata vincente dal punto di vista legale, perché ha dimostrato che i sospetti non erano "campati in aria", ma poggiavano su elementi concreti e misurabili. La Cassazione ha sottolineato come questa gradualità nell'approccio abbia reso perfettamente legittimo tutto l'iter che ne è seguito.
L'investigatore privato scopre l'inganno: le prove schiaccianti
Nel secondo semestre del 2020, l'agenzia investigativa ingaggiata dall'azienda ha iniziato a pedinare sistematicamente il letturista, raccogliendo prove che hanno rivelato un quadro devastante di negligenza e frode. Le condotte contestate al lavoratore sono emerse con chiarezza cristallina attraverso l'attività di sorveglianza del detective privato.
Il dipendente utilizzava il palmare aziendale in modo fraudolento, dichiarando l'inizio dell'attività lavorativa molto prima di uscire effettivamente di casa e registrando la fine del servizio molto dopo essere rientrato nella propria abitazione. Durante le ore che dovevano essere dedicate al lavoro, l'investigatore ha documentato come il letturista si recasse in luoghi completamente estranei ai suoi compiti professionali, tradendo così la fiducia riposta in lui dall'azienda. Ancora più grave, il lavoratore trascorreva lunghi periodi completamente inoperoso all'interno dell'auto aziendale, senza alcuna giustificazione plausibile per questa condotta. A completare il quadro delle violazioni, c'era anche la mancata osservanza dell'obbligo di indossare la divisa di lavoro, un dettaglio che potrebbe sembrare minore ma che, invece, contribuisce a delineare un atteggiamento generale di noncuranza verso i doveri professionali.
Controlli difensivi sempre legittimi
La strategia difensiva del lavoratore si è concentrata principalmente sulla contestazione della tempestività dell'azione disciplinare intrapresa dall'azienda, ma la Cassazione ha respinto ogni obiezione con fermezza. I giudici della Suprema Corte hanno chiarito che spetta esclusivamente ai tribunali di merito valutare il momento in cui un'azienda ha raccolto elementi sufficienti per procedere con una contestazione formale.
Nel caso specifico, il datore di lavoro aveva agito in modo pienamente corretto dal punto di vista procedurale: pur avendo notato un calo significativo di rendimento in precedenza, aveva scelto di procedere solo dopo aver raccolto prove specifiche e documentate attraverso l'investigatore privato. Questo approccio metodico e graduale ha convinto i giudici della legittimità dell'intero processo. La sentenza conferma, quindi, un principio fondamentale: i controlli difensivi su un dipendente sono sempre ammissibili quando esistano fondati sospetti di comportamenti illeciti, che possano danneggiare il patrimonio aziendale o compromettere l'immagine dell'impresa. La Corte ha, inoltre, precisato che il diritto dell'azienda a tutelare i propri interessi prevale su eventuali rivendicazioni di privacy del lavoratore, soprattutto quando questi svolge mansioni all'esterno dei locali aziendali.
Il futuro del lavoro esterno: tra controllo legittimo e sorveglianza eccessiva
Questa decisione della Cassazione, pur inserendosi in un orientamento giuridico consolidato, tocca questioni profondamente attuali nel mondo del lavoro contemporaneo. Da una parte, la sentenza riafferma il diritto sacrosanto delle imprese a proteggersi da comportamenti fraudolenti, che minano alla base il rapporto di fiducia con i dipendenti. Dall'altra, però, emergono interrogativi inquietanti sul confine tra controllo legittimo e sorveglianza eccessiva.
Il messaggio che arriva dalla Suprema Corte è cristallino: chi lavora fuori ufficio non è mai veramente "libero" dal controllo aziendale. In un'epoca dominata da dispositivi tecnologici che tracciano ogni singolo movimento, il rischio concreto è che il controllo delle aziende diventi progressivamente più stretto, erodendo quella sfera di autonomia personale che dovrebbe essere garantita anche durante l'orario di lavoro. La vera sfida per il futuro sarà trovare un equilibrio sostenibile tra l'esigenza legittima delle imprese di controllare l'operato dei propri dipendenti e il rispetto di una privacy, che non può essere completamente annullata dal semplice fatto di essere in servizio. La tecnologia offre strumenti di controllo sempre più sofisticati, ma sta alla giurisprudenza e al legislatore definire i limiti entro cui questi strumenti possono essere utilizzati senza trasformare il rapporto di lavoro in una forma di sorveglianza totale.
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