Pubblicato il: 25/09/2025
La vicenda che ha portato in Cassazione
La vicenda oggetto della pronuncia comincia nel 2017, quando una segretaria part-time, al le dipendenze di un medico di base, riceveva una lettera di licenziamento per presunto giustificato motivo oggettivo. La lavoratrice aveva da tempo manifestato la volontà di diventare madre e, a partire dal 2016, aveva intrapreso insieme al coniuge un percorso di procreazione medicalmente assistita, giungendo alla fase più avanzata di fecondazione in vitro (FIVET).
Convinta che il licenziamento fosse discriminatorio, in quanto motivato dalla sua scelta di diventare madre, la donna impugnava la decisione del datore di lavoro dinanzi al Tribunale di Udine, che respingeva la domanda.
In appello, però, la Corte d'Appello di Trieste ribaltava la decisione di primo grado, accertando la natura discriminatoria del licenziamento e dichiarandone la nullità.
Il datore di lavoro proponeva allora ricorso per Cassazione, sostenendo, tra l’altro, che non vi fossero prove sufficienti a dimostrare la discriminazione, che la decisione fosse giustificata dall’esternalizzazione dei servizi a una cooperativa e che i giudici di merito fossero incorsi in vari vizi processuali.
Il principio ribadito dalla Suprema Corte
Il cuore della controversia riguardava l’applicazione delle norme antidiscriminatorie, in particolare l’art. 40 del codice pari opportunità, che disciplina l’onere della prova nei giudizi di discriminazione. Secondo la giurisprudenza consolidata, il lavoratore deve offrire elementi indiziari “precisi e concordanti” che facciano presumere la discriminazione; spetta, poi, al datore di lavoro dimostrare che il licenziamento è fondato su ragioni oggettive e non discriminatorie.
Nel caso concreto, la Corte d’Appello aveva valorizzato alcuni indizi significativi, tra cui:
- la tempistica del licenziamento, coincidente con la fase più delicata della FIVET;
- la conoscenza diretta, da parte del datore, delle condizioni della lavoratrice (essendo anche il suo medico di base);
- l’assenza di reali necessità organizzative, dal momento che l’esternalizzazione dei servizi alla cooperativa non aveva modificato la struttura produttiva;
- il fatto che la lavoratrice fosse l’unica dipendente a subire il licenziamento.
Questi elementi hanno reso plausibile la discriminazione, facendo scattare l’onere probatorio a carico del datore di lavoro, che non è riuscito a fornire una spiegazione alternativa convincente.
Secondo la Cassazione, un licenziamento motivato dalla scelta di una donna di accedere a tecniche di procreazione assistita è nullo, perché fondato su una condizione personale strettamente legata al sesso e alla maternità. In altre parole, il cosiddetto “rischio di gravidanza” non può giustificare l’espulsione dal posto di lavoro.
Pertanto, la dipendente ha diritto alla reintegrazione e al riconoscimento delle retribuzioni maturate durante l’assenza forzata, oltre ai contributi previdenziali. Questo orientamento conferma che la tutela non si limita al periodo di gestazione accertata, ma si estende anche alla fase in cui la donna manifesta l’intenzione di diventare madre.
Valori costituzionali e tutela della dignità
La sentenza sottolinea il rilievo dei principi di parità di genere, uguaglianza e libertà di autodeterminazione, richiamando implicitamente l’art. 37 Cost.. La maternità, in tutte le sue forme, non può costituire motivo di penalizzazione professionale. Di conseguenza, le scelte riproduttive individuali – anche quando richiedono procedure mediche complesse – devono essere protette contro ogni forma di discriminazione sul luogo di lavoro.
I casi in cui il licenziamento resta legittimo
Va ricordato che la regola generale della stabilità del posto non è assoluta. Il datore di lavoro mantiene la facoltà di recedere nei casi previsti dalla legge:
- gravi violazioni disciplinari che configurano giusta causa;
- cessazione dell’attività aziendale;
- conclusione naturale di un contratto a termine;
- mancato superamento del periodo di prova.
In tali circostanze, lo stato di gravidanza o la scelta di avviare un percorso di PMA non impediscono l’interruzione del rapporto.
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