Pubblicato il: 05/11/2025
Anche in circostanze come queste, infatti, può trovare applicazione il reato di diffamazione, disciplinato dall'art. 595 del c.p., il quale punisce chi – comunicando con più persone – offende la reputazione di un'altra persona assente. Il commento online può diventare prova in un processo penale e c'è un dettaglio da non sottovalutare: per legge, quando le parole sono usate tramite strumento digitale, può scattare l'aggravante della "pubblicità", con sanzioni penali più rigide. È il comma terzo dell'articolo appena citato a prevederlo, in quanto il web è pur sempre un mezzo che potenzialmente rende l'offesa in grado di raggiungere un numero illimitato di persone (Cass. Pen. 37618/2023).
A questo punto la domanda sorge spontanea: c'è una "lista nera" delle parole da non dire sul web, per non correre rischi? Insomma, qual è il confine tra critica e diffamazione? Ebbene, la risposta è negativa, perché non c'è un dizionario della diffamazione, un vero e proprio codice di condotta digitale, recante l'elenco delle parole vietate. Ciò non toglie, però, che sia stata la giurisprudenza – nel corso del tempo – a dare utili indicazioni a riguardo. In particolare, affrontando casi pratici che hanno preso le mosse proprio da risse verbali sul web, la Cassazione ha spiegato più volte dove finisca la libertà di espressione e dove cominci l'offesa punibile.
Anzitutto, per i giudici di piazza Cavour conta il significato, non l'intenzione di ledere qualcuno con termini non propri di un linguaggio civile (Cass. Pen. 36217/2024). Non conta cioè la dimensione "soggettiva" dell'insulto verbale, ma cosa quella parola vuol dire in senso oggettivo, ossia secondo il senso che la società dà a quelle parole. E, oltre al contesto o situazione specifica, conta altresì la consapevolezza del significato della parola o delle parole usate. Ecco allora che un utente di Facebook o Instagram può commettere il reato di diffamazione, indipendentemente dalla volontà di mettere a disagio l'interlocutore con le sue parole: basta l'uso dei termini in sé, in quanto socialmente ritenute lesive dell'immagine, della reputazione e della dignità individuale.
Sondando la giurisprudenza degli ultimi anni, è possibile fare una sorta di panoramica delle parole che è caldamente consigliato non scrivere come commento a qualche utente sotto un post dei social, o in qualche discussione nei gruppi o forum web. Non è diffamatorio dire che un utente è "debitore", ma soltanto se questo corrisponde alla realtà e analogo discorso vale per il termine "fallito", laddove vi sia un provvedimento giudiziario che – effettivamente – accerta questa condizione. Invece, attribuire senza fondamento la "falsità in bilancio" a qualcuno è un reato (Cass. Pen. 12186/2022).
Al contempo, per la Cassazione, sono diffamatori termini e frasi come: "Ma vai a farti fot*ere, ladro che non sei altro", "Sei uno stron*o", "Addio caz*one!" (Cass. Pen. 13252/2021), oppure "Sei un imbecille!" (Cass. 15060/2011). Invece, scrivere "Cog*ione", nel caso in cui sia usato con il significato di scemo o ingenuo, non integra il reato (Cass. 34442/2017). Analogamente "Rompip*lle" non è un insulto punibile, se utilizzato con il significato di seccatore (Cass. 22887/2013). Ancora, dire a qualcuno "Vaffanc*lo" non è penalmente rilevante, perché si tratta di parola dell'uso comune (Cass. 27996/2007). Non solo. Anche dire che una persona "Ha rotto i cog*ioni" non è un insulto perché usata per dire a qualcuno di non infastidire (Cass. 19223/2013).
Nel vasto campo dei conflitti condominiali, non è raro trovare discussioni sul web che prendono di mira gli amministratori. Ebbene, in casi come questi, non è un illecito penale criticare duramente un amministratore di condominio che non svolge i compiti professionali, bollandolo pubblicamente sul web come "latitante". Infatti, la Suprema Corte ha valutato che l'uso di queste parole rientra pienamente nel diritto di critica, in quanto fondato su fatti veri e di interesse pubblico (Cass. Pen. 3372/2011). Al contempo, chi – invece – diffonde pettegolezzi sulla vita privata o sentimentale di una collega commette diffamazione e violazione della privacy (Cass. Pen 44940/2011).
Non servono parolacce per finire davanti a un giudice. La Cassazione ha giudicato diffamatorie anche espressioni apparentemente moderate come "gentaglia", "complici", o "vergogna… fate schifo", soprattutto se rivolte a esponenti politici o pubblici (Cass. Pen. 1788/2024). Invece, definire alcuni esponenti politici "nazifascisti" o "neonazisti" non è stato ritenuto reato, trattandosi non di un attacco personale ma di critica politica correlata a un contesto ideologico (Cass. Pen. 19449/2009).
Il diritto di critica è protetto dall'art. 51 del c.p. e permette di esprimere opinioni, anche dure o polemiche. Tutto dipende dal contesto e, in ogni caso, la critica deve essere contenuta, ossia riferita a fatti veri, misurata e senza scadere nell'attacco personale. Ecco perché perfino il termine "putta*iere" può non essere diffamatorio (Cass. Pen. 37397/2016), se adoperato nel senso colloquiale di "donnaiolo" e non per attribuire comportamenti sessuali disonorevoli.
In un altro caso la Suprema Corte ha ritenuto configurabile il reato nelle offese a una conoscente, definita "nana" e "spazzina", pur senza fare il suo nome. Infatti, talvolta, bastano pochi dettagli, ma sufficienti per permettere agli utenti che leggevano i post di capire a chi si stesse riferendo l'autrice delle parole.
Concludendo, è sempre meglio – quindi – pensarci due volte prima di scrivere online. La libertà di parola è sacra, ma la tastiera non è uno scudo. E l'impulsività gioca brutti scherzi.
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