Pubblicato il: 11/09/2025
Nel corso del processo è emerso un quadro di estrema precarietà economica e sociale dell’imputato, che tra il 2016 e il 2020 ha percepito redditi annui tra circa 5.700 e 8.900 euro, insufficienti a garantire una sopravvivenza dignitosa.
Dopo la separazione dalla moglie, l’imputato ha vissuto in condizioni di forte disagio abitativo, alternando brevi soggiorni presso familiari e periodi in alloggi di fortuna, tra cui un garage privo di acqua ed energia elettrica. A confermare la sua situazione, anche l’intervento dei servizi sociali comunali, che lo hanno incluso in un progetto PON finalizzato al contrasto della povertà e della condizione di senza fissa dimora. Inoltre, un precedente procedimento penale, relativo a periodi analoghi e reati simili, si era concluso con archiviazione, proprio per l’assenza di reddito stabile e di lavoro regolare.
Il problema giuridico centrale riguarda la configurabilità del reato di violazione degli obblighi di assistenza familiare previsto dall’art. 12 sexies della legge divorzio, in presenza di una reale impossibilità di adempiere. La questione è complessa: la giurisprudenza distingue, infatti, tra la semplice difficoltà economica e l’impossibilità assoluta di versare l’assegno, quest’ultima condizione che esclude il dolo e, quindi, la responsabilità penale.
La Cassazione ha accolto il ricorso dell’imputato limitatamente agli aspetti motivazionali, annullando la sentenza della Corte d’Appello e rinviando il procedimento a un’altra sezione della stessa Corte per un nuovo esame.
Gli Ermellini hanno innanzitutto fornito alcune precisazioni in materia di prescrizione del reato, affermando che la mancata corresponsione dell’assegno costituisce un reato a consumazione prolungata, formato da una pluralità di omissioni che si protraggono nel tempo e che, quindi, la consumazione non può essere identificata con una singola data, ma si estende fino all’adempimento integrale o alla sentenza di primo grado. Di conseguenza, il reato non era prescritto al momento della sentenza d’appello.
In secondo luogo, la Suprema Corte ha sottolineato come i giudici di merito abbiano trascurato elementi fondamentali della difesa, quali le relazioni dei servizi sociali e i decreti di archiviazione precedenti, che attestavano la reale impossibilità dell’imputato di adempiere agli obblighi di mantenimento. La Cassazione ricorda come l’impossibilità assoluta non coincida con l’indigenza totale: occorre, infatti, valutare se l’obbligato potesse versare l’assegno senza compromettere la propria sopravvivenza dignitosa. Nel caso in esame, le prove indicavano che l’imputato non disponeva di reddito stabile, aveva condizioni abitative precarie e difficoltà quotidiane gravi, elementi che i giudici di appello non hanno sufficientemente considerato.
Infine, la Cassazione ha evidenziato discrepanze e incertezze temporali nella motivazione della Corte d’Appello, che non ha chiarito con sufficiente rigore a partire da quale momento l’imputato avrebbe potuto adempiere “consapevolmente”, ignorando anche la continuazione dello stato di indigenza. Questa lacuna motivazionale ha reso necessario un nuovo esame, lasciando al giudice d’appello il compito di valutare in concreto la capacità di adempiere e la possibilità di convertire la pena detentiva in pecuniaria.
La pronuncia ribadisce un principio di grande rilievo: la responsabilità penale per mancato versamento dell’assegno di mantenimento deve tenere conto delle condizioni concrete dell’obbligato, bilanciando l’interesse dei minori e dei beneficiari con il diritto del soggetto a vivere in condizioni dignitose. Pertanto, è indispensabile verificare se l’imputato fosse effettivamente nelle condizioni materiali di soddisfare gli obblighi, senza compromettere la propria sopravvivenza.
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