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Lavoratore, rischi il licenziamento se offendi il tuo capo in pubblico, anche se è la prima volta: nuova sentenza

Pubblicato il: 30/07/2025

Nel mondo del lavoro non si può dire tutto quello che si pensa, soprattutto se si parla del proprio capo. Quando c’è un legame di subordinazione, il rispetto è obbligatorio, non una gentilezza facoltativa. Questo è il principio ribadito dalla Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 21103 del 24 luglio 2025, che ha giudicato legittimo il licenziamento di una psicologa che aveva offeso il proprio superiore dandogli del “leccaculo” davanti a una collega.
Non si è trattato solo di un’espressione maleducata, ma di un vero atto di insubordinazione, cioè un comportamento che rompe il rispetto delle gerarchie e delle regole aziendali. L’insulto, infatti, era arrivato come reazione diretta a una decisione aziendale (la modifica del piano ferie), proprio mentre il capo stava dando delle indicazioni. La Cassazione ha stabilito che questo tipo di comportamento mina in modo irreparabile la fiducia che deve esistere tra datore di lavoro e lavoratore.
La Corte ha chiarito che, quando un dipendente usa un linguaggio offensivo nei confronti del superiore in modo pubblico e gratuito, non ci sono scuse. Non è necessario che ci sia una lite violenta o una provocazione forte: un singolo episodio può essere sufficiente per giustificare il licenziamento, se si supera il limite del rispetto e della buona educazione.
Il contesto aggrava la situazione: offesa in pubblico e precedenti disciplinari pesano sulla decisione
Il caso in esame riguardava una psicologa, impiegata in una struttura che offre servizi di assistenza a persone con disabilità. Secondo quanto emerso, la donna ha insultato il proprio responsabile durante una discussione relativa alla modifica delle ferie, pronunciando l’offesa "leccaculo" davanti a un’altra collega presente nella stanza. Questo dettaglio ha avuto un peso enorme, perché la presenza di testimoni ha trasformato l’offesa in un’umiliazione pubblica del superiore.
La Corte, inoltre, ha sottolineato che la lavoratrice aveva già ricevuto una sanzione disciplinare in passato: aveva insultato il padre di un paziente. Anche se questo non ha rappresentato una recidiva in senso stretto, è servito a descrivere il carattere della dipendente. I giudici parlano infatti di una "inclinazione all’insulto e all’ingiuria", con una certa facilità nel trascendere nei toni e nei termini usati.
In secondo grado, la Corte d’Appello aveva già corretto la decisione del Tribunale, che inizialmente aveva giudicato il licenziamento esagerato. Secondo i giudici d’appello, l’epiteto rivolto al capo non era solo di "cattivo gusto", ma "volgare, pesante e ingiurioso", e ha avuto un impatto così grave da rendere impossibile il proseguimento del rapporto lavorativo.
Ingiuria e insubordinazione: basta un solo episodio per rompere il contratto
Molti lavoratori pensano che, per essere licenziati per giusta causa, servano comportamenti ripetuti nel tempo, ma non è così. La sentenza della Cassazione lo spiega chiaramente: anche un solo episodio, se abbastanza grave, può giustificare il licenziamento immediato senza preavviso. Questo vale soprattutto quando il comportamento colpisce il cuore del rapporto di lavoro: la fiducia.
Nel diritto del lavoro italiano, il licenziamento per giusta causa è disciplinato dall’art. 2119 del c.c., che permette al datore di interrompere subito il rapporto quando si verifica un fatto che non consente la prosecuzione, nemmeno temporanea, del contratto.
Nel caso specifico, l’uso di un linguaggio offensivo, in pubblico, e in risposta a un ordine gerarchico, ha rappresentato una forma chiara di insubordinazione. Anche se il contratto collettivo prevede in generale sanzioni per "litigi, ingiurie e risse", la Cassazione ha ribadito che non è necessario che l’insulto sia ripetuto più volte per renderlo grave: la modalità con cui viene espresso conta quanto – e forse più – della parola stessa.
In questo caso, infatti, la frase è stata pronunciata in un momento di confronto legato a un tema organizzativo (le ferie), e per questo è stata considerata un attacco diretto al ruolo del capo, tale da giustificare il licenziamento.

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