Pubblicato il: 16/07/2025
La Legge 104 del 1992 non è solo un provvedimento normativo, è una conquista sociale. Garantisce permessi retribuiti, orari flessibili e diritti specifici a chi assiste familiari disabili, offrendo un minimo di respiro in situazioni spesso logoranti. Eppure, nei luoghi di lavoro, capita ancora troppo spesso che questi diritti vengano ignorati o aggirati. È proprio in questo contesto che arriva una sentenza destinata a segnare un punto fermo: la n. 18063 del 2024 della Corte di Cassazione.
Il caso riguarda un lavoratore che da vent’anni faceva turni a ciclo continuo e che, usufruendo della 104, assisteva la moglie gravemente invalida. Quando l’azienda ha soppresso il suo ruolo, gli ha proposto un nuovo incarico con orario a doppio turno, incompatibile con le sue esigenze familiari. Al suo rifiuto, è stato licenziato. Ma la Cassazione non ci sta.
Il caso: licenziato perché non accetta il cambio orario
La sentenza della Cassazione n. 18063 del 2024 nasce da una storia concreta, comune a molti: un lavoratore che, come abbiamo anticipato, da vent’anni svolgeva turni a ciclo continuo e usufruiva della 104 per assistere la moglie gravemente invalida.
L’azienda decide di sopprimere il suo incarico e gli propone un nuovo ruolo – come carrellista – con un orario a doppio turno. Ma quell’orario non si conciliava con le sue esigenze familiari. Così rifiuta e viene licenziato per “giustificato motivo oggettivo”. In primo grado vince, ma in appello perde: i giudici sostengono che non abbia dimostrato che l’orario proposto fosse incompatibile con l’assistenza alla moglie. L’uomo ricorre allora alla Cassazione, e lì arriva la svolta.
La Cassazione è chiara: prima di licenziare, serve il “ripescaggio”
Con la nuova sentenza, la Corte di Cassazione ha ribaltato nuovamente il verdetto, affermando un principio tanto semplice quanto potente: l’azienda non può licenziare un lavoratore che usufruisce della 104 senza aver provato davvero tutte le alternative possibili.
Questo dovere ha un nome preciso: si chiama repêchage, ovvero il tentativo di “ripescare” il lavoratore prima di arrivare al licenziamento. E non è una formalità. L’azienda deve dimostrare, documenti alla mano, di aver analizzato ogni possibilità, anche con demansionamento o spostamento di reparto, pur di consentire al dipendente di conciliare lavoro e assistenza.
Nel caso in questione, la Cassazione ha rilevato che l’azienda aveva continuato ad assumere altri lavoratori con lo stesso orario precedente. Ciò dimostra che una posizione compatibile esisteva eccome, ma è stata negata al caregiver, in violazione dei principi di correttezza e buona fede.
Cosa cambia ora per chi assiste familiari con disabilità
Questa sentenza ha un peso enorme per tutti i lavoratori che si trovano nella stessa situazione. Non si tratta di una semplice vittoria individuale, ma di un precedente giuridico che potrà essere richiamato in casi simili. Il messaggio della Cassazione è chiaro: le esigenze organizzative dell’azienda non possono cancellare i diritti del lavoratore fragile.
Attenzione però: ciò non significa che il caregiver sia inamovibile. Il licenziamento resta possibile, ma solo se l’azienda dimostra in modo serio, dettagliato e documentato di non avere altre strade. Non bastano frasi generiche o giustificazioni vaghe. Servono prove concrete che siano state valutate tutte le opzioni, anche quelle più scomode per l’azienda.
Una sentenza che fa giurisprudenza e dà speranza
Con questa decisione, la Cassazione manda un messaggio forte e chiaro: la cura è un valore che merita protezione, anche e soprattutto nei luoghi di lavoro. Chi assiste un familiare disabile non può essere trattato come un peso o un problema da scaricare. Deve invece essere visto come una figura che svolge un compito sociale fondamentale.
Questa sentenza si inserisce in un filone di giurisprudenza sempre più attento alla tutela dei lavoratori fragili, lo stesso che – negli ultimi anni – ha escluso sanzioni per chi usufruisce dei permessi 104 per riposarsi o svolgere attività compatibili con l’assistenza. È, insomma, una vittoria di civiltà, che potrebbe cambiare la vita a tanti lavoratori e lavoratrici che ogni giorno lottano per tenere insieme lavoro e cura. E oggi possono farlo con una certezza in più: la legge è dalla loro parte.
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