Pubblicato il: 05/02/2025
Nel caso esaminato – identificato con il ricorso n. 13805/2021 “H.W. c. Francia” – la Corte ha rilevato una violazione dell’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, che tutela il diritto al rispetto della vita privata e familiare. La parte ricorrente aveva contestato la logica adottata dal tribunale nazionale, il quale aveva incentrato il procedimento di divorzio sull’attribuzione completa di colpa al rifiuto, definito “ingiustificato”, di avere rapporti sessuali col marito.
La Cedu ha evidenziato che la questione nasce a causa di quanto previsto dall’ordinamento di diritto civile francese, che inserisce i rapporti intimi tra i doveri coniugali, prevedendo di conseguenza non solo l’addebito della separazione, ma anche il diritto ad un risarcimento danni in presenza di una violazione.
La posizione espressa dalla Corte, unanime nella sua decisione, ha contestato la normativa nazionale, definendola un’ingerenza immotivata nella sfera personale degli individui. In particolare, la decisione della Corte d’Appello di Versailles, che aveva fatto riferimento a una “grave e ripetuta violazione dei doveri e degli obblighi coniugali”, tale da rendere impossibile la prosecuzione del matrimonio, è stata oggetto di aspre critiche. Una regolamentazione di tale portata, soprattutto se applicata senza un idoneo bilanciamento degli interessi in gioco, potrebbe compromettere la libertà sessuale e l’autonomia fisica dei cittadini.
Parallelamente, la Corte ha richiamato l’obbligo di prevenzione e di contrasto alla violenza domestica, evidenziando che l’identificazione dell’unione sessuale come un obbligo legale tra coniugi si ponga in contrasto con tale supremo obiettivo. Inoltre, tale interpretazione rende più complessa la distinzione tra una relazione legittima ed una, invece, caratterizzata da situazioni di abuso, violenza o stupro. La questione del c.d. “marital rape” (lo stupro coniugale, ossia la consumazione di un rapporto sessuale con il proprio coniuge attuato senza il consenso, non necessariamente con violenza fisica), rimane un problema di notevole complessità e, alla luce di interpretazioni analoghe a quelle sollevate nel ricorso, si potrebbe compromettere gravemente la capacità di punire tale reato. Il consenso, infatti, non può essere considerato un atto univoco compiuto al momento del matrimonio, ma deve essere manifestato in modo continuativo, esplicito o tacito e rimanere revocabile in ogni istante del rapporto.
Considerato questo quadro, l’ordinamento italiano, grazie a una definizione più generica dei doveri coniugali, non pone ostacoli insormontabili. Il Codice civile del nostro ordinamento si limita, infatti, a richiedere un’assistenza morale e materiale che comprende, tra le altre cose, la sfera dell’unione fisica tra i coniugi, ma in termini sostanzialmente differenti.
In Italia, il rifiuto di intrattenere rapporti sessuali viene addebitato come causa di separazione solo se si configura come un comportamento prolungato, ingiustificato e direttamente correlato al deterioramento della convivenza.
Le recenti pronunce della Corte di Cassazione hanno chiaramente ribadito che tale dovere non può essere imposto in via coercitiva, né il mancato rispetto di esso può costituire, in via automatica, una condizione intimidatoria. Ad esempio, in presenza di problematiche preesistenti che minano l’armonia coniugale, il rifiuto di avere rapporti sessuali non viene interpretato come causa di addebito della separazione, circostanza che, peraltro, non si traduce in pregiudizi economici se non nella privazione del diritto al mantenimento.
Particolarmente rilevante è la sentenza n. 19112/2012, in cui la Suprema Corte richiama una sua precedente pronuncia (la sent. n. 6276 del 2005) e ribadisce che “il persistente rifiuto di intrattenere rapporti affettivi e sessuali con il coniuge – poiché, provocando oggettivamente frustrazione e disagio e, non di rado, irreversibili danni sul piano dell’equilibrio psicofisico, costituisce gravissima offesa alla dignità e alla personalità del partner – configura e integra violazione dell’inderogabile dovere di assistenza morale sancito dall’art. 143 c.c., che ricomprende tutti gli aspetti di sostegno nei quali si estrinseca il concetto di comunione coniugale. Tale volontario comportamento sfugge, pertanto, ad ogni giudizio di comparazione, non potendo in alcun modo essere giustificato come reazione o ritorsione nei confronti del partner e legittima pienamente l’addebitamento della separazione in quanto rende impossibile al coniuge il soddisfacimento delle proprie esigenze affettive e sessuali e impedisce l’esplicarsi della comunione di vita nel suo profondo significato”.
I giudici di legittimità statuiscono che il rifiuto di intrattenere rapporti sessuali può essere considerato come causa della separazione e dunque addebitabile al coniuge solo se “persistente” e idoneo a provocare “frustrazione e disagio”, nonché “irreversibili danni sul piano dell’equilibrio psicofisico”. Ne discende che un rifiuto occasionale non può costituire elemento sufficiente per addebitare la separazione ad un coniuge piuttosto che all’altro.
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