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Mentire al datore di lavoro ti costa caro, c’è il licenziamento per giusta causa: ecco la nuova sentenza di Cassazione

Pubblicato il: 11/12/2024

In ambito lavorativo, la fiducia rappresenta la chiave per far sì che il rapporto di lavoro sia caratterizzato da chiarezza e integrità, garantendo così una collaborazione duratura e fruttuosa.
In tal senso si è espressa di recente la Suprema Corte di Cassazione. Gli Ermellini, infatti, con l’ordinanza n. 30613/2024, hanno ricordato che la fiducia costituisce la pietra angolare di ogni interazione, specialmente con il proprio datore di lavoro, il quale è responsabile del versamento degli stipendi e dei contributi, permettendo al lavoratore di poter contare su una fonte di reddito mensile.
In particolare, nell’ordinanza in commento la Cassazione si è pronunciata in ordine ad una controversia scaturita da un licenziamento dovuto a una menzogna rivolta al datore di lavoro.

Quando il datore di lavoro scopre che un proprio dipendente ha fornito informazioni false, inevitabilmente la reputazione di quest’ultimo viene danneggiata, rendendo complessa la costruzione o il mantenimento di un rapporto professionale solido. Inoltre, il lavoratore che ha mentito può essere soggetto a severe sanzioni disciplinari.
Nel caso oggetto della pronuncia di legittimità, un dipendente, responsabile di un negozio per conto dell’azienda, ricorreva contro il provvedimento di licenziamento. In particolare, il datore di lavoro gli contestava di essere tornato in ritardo al lavoro dopo la pausa pranzo senza preavviso al superiore e di non essersi presentato il giorno seguente, sempre senza avvisare.
La contestazione disciplinare – come riportato nel provvedimento della Cassazione – riguardava il comportamento del responsabile che, oltre a non rispettare gli orari di lavoro, si era allontanato dalla sede di lavoro per prendere un volo per Milano.

Naturalmente, il lavoratore, il giorno successivo, non si era recato in ufficio. Tuttavia, la giustificazione fornita – ed è qui che si nasconde la bugia che ha portato al licenziamento – riguardava un presunto impedimento legato alla salute della moglie, comunicato telefonicamente, lasciando intendere, però, di trovarsi in città e di essere disponibile a tornare in servizio in caso di necessità.
Sui fatti esposti, il Tribunale di primo grado ha confermato la legittimità del licenziamento, così come ha fatto il giudice di secondo grado. Pertanto, il ricorrente ha presentato ricorso in Cassazione, cercando di ribaltare le decisioni dei precedenti gradi di giudizio.
La Suprema Corte ha, però, confermato e avallato le pronunce dei giudici di merito. Nella motivazione dell’ordinanza n. 30613, infatti, la Cassazione ha messo in evidenza che il giudice di secondo grado ha identificato con chiarezza i fatti oggetto della contestazione e la violazione disciplinare ascritta, ossia il comportamento “truffaldino” del dipendente, che si era dimostrato irresponsabile rispetto ai compiti assegnati in azienda, facendo sì che non si trattasse di una mera assenza non giustificata.

Questo comportamento è stato ritenuto talmente grave da giustificare la sanzione del licenziamento, anche perché il contratto collettivo applicabile al lavoratore, nel settore Terziario, distribuzione e servizi, qualifica tale condotta come un “abuso di fiducia” e una “grave violazione degli obblighi”.
In particolare, il dipendente espulso non aveva osservato con rigore i propri doveri professionali, come stabilito dall’art. 25 del contratto collettivo nazionale di lavoro applicato in azienda, incorrendo, pertanto, nelle conseguenze previste dall’art. 2119 del c.c., che consente il recesso per giusta causa da parte dell’azienda.
La Corte d’appello ha pertanto accertato correttamente che il lavoratore non si era reso responsabile di una semplice assenza ingiustificata, ma aveva mostrato un comportamento caratterizzato da “un quid pluris rappresentato da programmazione anticipata e risalente nel tempo, pervicacia nel decidere di non presentarsi al lavoro il 13 febbraio, comunicazioni tali da far intendere all’azienda di essere al capezzale della moglie, di essere disponibile a rientrare in servizio nel pomeriggio del 13 e di assentarsi per ferie solamente il 16 febbraio.”

La Cassazione ha avallato le conclusioni del giudice di secondo grado: il dipendente licenziato ha dimostrato una totale indifferenza nei confronti delle necessità aziendali, in netta contraddizione con le responsabilità di chi occupa il ruolo di direttore di un punto vendita.
Ecco perché, nell’ordinanza n. 30613, si sottolinea che proprio questo comportamento ingannevole era sufficiente per escludere l’applicabilità delle norme contrattuali, che puniscono l’assenza dal lavoro solo con sanzioni conservative.
D’altronde, già in un precedente intervento, la Suprema Corte si era espressa in tal senso (Cass. n. 26198 del 2022, richiamata nella recente ordinanza). In quelle circostanze, infatti, non si trattava solo di una mera assenza ingiustificata, ma di un vero e proprio abuso di diritto (considerato anche in riferimento ai permessi sindacali o ai lavoratori in malattia), caratterizzato da una gravità oggettiva e soggettiva superiore rispetto a quanto previsto dalla norma del contratto collettivo.
Con l’ordinanza della Cassazione n. 30613, il ricorso dell’uomo è stato pertanto definitivamente respinto, chiudendo per lui la possibilità di ribaltare la decisione dell’azienda di licenziarlo. Inoltre, il lavoratore è stato obbligato a sostenere le spese legali relative al procedimento presso la Corte, compresi i significativi compensi professionali.


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