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NASPI 2025, l’INPS può chiederti di restituire i soldi indietro: ecco i tre motivi e cosa puoi fare per contestarli

Pubblicato il: 20/03/2025

La perdita del lavoro rappresenta inevitabilmente un enorme problema che, ad oggi, a causa della crisi economica, molti lavoratori sono purtroppo costretti ad affrontare. Lo Stato, dunque, interviene attraverso la Naspi (Nuova Assicurazione Sociale per l'Impiego), ossia un’indennità mensile di disoccupazione, riconosciuta ai disoccupati, soggetti che abbiano perduto involontariamente il lavoro. Tuttavia, l’erogazione dell’assegno non è esente da revoche: in determinate circostanze, l’Inps può infatti richiedere la restituzione degli importi versati.
Comprendere i motivi alla base di una simile richiesta è essenziale per evitare spiacevoli sorprese. Infatti, il recupero delle somme può derivare da errori amministrativi, da variazioni nella situazione del beneficiario o persino da condotte fraudolente.

La prima ipotesi in cui l’Inps può pretendere la restituzione di quanto versato al lavoratore a titolo di Naspi si verifica allorquando risulti che il pagamento sia avvenuto per errore o in mancanza dei requisiti previsti. Ad esempio, un calcolo impreciso dell’importo spettante può comportare accrediti superiori al dovuto, generando un debito nei confronti dell’ente previdenziale a carico del beneficiario.
Un altro scenario comune riguarda chi, pur percependo la Naspi, trova un impiego senza comunicarlo tempestivamente all’Inps. In questi casi, la prestazione deve essere interrotta e, se il sussidio continua a essere versato, l’eccedenza dovrà essere rimborsata.
Vi sono poi situazioni più gravi, in cui l’indennità è stata ottenuta attraverso dichiarazioni non veritiere. Se si accerta che un soggetto ha fornito informazioni false per ricevere la Naspi senza avervi diritto, si può configurare un illecito, con conseguenze non solo economiche, ma anche di natura legale.

Come avviene il recupero delle somme
Quando l’Inps rileva un’indebita percezione della Naspi, avvia una procedura di recupero notificando al cittadino l’importo da restituire e le modalità di pagamento. In alcuni casi, il rimborso può avvenire tramite compensazione: in altre parole, l’ente previdenziale tratterrà gli importi da restituire da altre prestazioni future a favore del percettore, come assegni pensionistici o ulteriori indennità dovute.
Se l’importo è elevato, il debitore può richiedere una rateizzazione, a patto che dimostri di non poter rimborsare la somma in un’unica soluzione. Tuttavia, la concessione di un piano di pagamento dilazionato non è automatica e viene valutata dall’Inps caso per caso.
Qualora il cittadino non provveda alla restituzione, l’ente può attivare strumenti di recupero coattivo, ricorrendo anche all’autorità giudiziaria per ottenere la restituzione delle somme.

È possibile contestare la richiesta di rimborso?
Se si ritiene che la richiesta di restituzione sia ingiustificata, è possibile opporsi mediante ricorso amministrativo all’Inps nel termine di 90 giorni dalla notifica della richiesta di rimborso. L’opposizione può essere inoltrata autonomamente, tramite un avvocato o con il supporto di un patronato.
Inoltre, in alcuni casi l’ente previdenziale potrebbe aver superato i termini di prescrizione per richiedere il rimborso. La legge, infatti, fissa in 10 anni il termine di prescrizione per recuperare le somme indebitamente erogate, salve eventuali interruzioni dello stesso.
Se il ricorso amministrativo viene respinto, l’ultima possibilità è rivolgersi al tribunale ordinario. In sede giudiziaria, il cittadino può presentare prove a sostegno della propria posizione, dimostrando la legittimità della prestazione ricevuta o contestando eventuali errori commessi dall’Inps.


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