Pubblicato il: 31/03/2025
Tuttavia, è bene fare attenzione: non tutti sono disposti a lasciar correre e a considerare certe espressioni come semplici manifestazioni di nervosismo. In un mondo frenetico e stressante, sapere quando trattenersi e quando concedersi qualche epiteto liberatorio può fare la differenza.
Vediamo, quindi, in quali casi un insulto può sfociare in una richiesta di risarcimento per ingiuria o diffamazione e quando, invece, rientra nei limiti di ciò che è considerato socialmente accettabile.
Prima di dare libero sfogo alle parole, è importante chiarire la differenza tra ingiuria e diffamazione e comprendere anche quando si possono muovere critiche nei confronti del proprio datore di lavoro.
Le offese verbali non sono tutte uguali davanti alla legge. La diffamazione si verifica quando un’offesa viene pronunciata in assenza della vittima, ma davanti ad almeno due persone, mentre l’ingiuria avviene direttamente tra offensore e offeso, anche se ci sono testimoni.
Entrambe possono manifestarsi attraverso parole scritte o pronunciate a voce, anche con mezzi telematici. Tuttavia, esiste una distinzione fondamentale: la diffamazione è un reato previsto dall'art. 595 del codice penale, mentre l’ingiuria è stata depenalizzata nel 2016, rimanendo solo un illecito civile.
Se si è vittima di diffamazione, si può presentare querela ai carabinieri o alla Procura, che deciderà se archiviare il caso o procedere penalmente. In caso di processo, l’offeso può chiedere il risarcimento del danno.
Nel caso di ingiuria, invece, l’unica strada è l’azione civile, ma dimostrare l’illecito può essere difficile senza prove scritte o registrazioni. Se il giudice accerta l’offesa, può condannare l’autore a un risarcimento e a una sanzione tra 200 e 12.000 euro.
Ad esempio, insultare il proprio capo – dandogli del "corrotto", ad esempio – in una mail privata è ingiuria; se la mail è inviata con altri in copia, diventa diffamazione.
Le parolacce con il "via libera" della Cassazione
Negli anni, diverse sentenze hanno stabilito che alcuni insulti, per il loro uso diffuso, non sono considerati penalmente rilevanti. Ecco alcuni esempi:
- "Coglione!" → Ammesso solo se inteso come sinonimo di scemo o ingenuo (Cass. 34442/17);
- "Mi hai rotto i coglioni!" → Non è offensivo se usato per chiedere di non infastidire (Cass. 19223/13);
- "Vaffanculo!" → Considerato di uso comune, quindi non è ingiuria (Cass. 2007);
- "Rompipalle!" → Accettato se usato per indicare un seccatore (Cass. 22887/13);
- "Cazzate!" → Ritenuto parte del linguaggio quotidiano (Cass. 49423/09).
E un lavoratore può dire che è “pessimo” il proprio datore di lavoro? Qual è l’orientamento della giurisprudenza in riferimento al diritto di critica esercitato nei confronti del datore di lavoro?
La Suprema Corte, nel definirne i limiti, ha affermato che il diritto di critica deve ritenersi legittimo se esercitato nel rispetto della continenza formale e sostanziale. In particolare, secondo la Cassazione, per non cadere nell’illegittimità dell’esercizio di tale diritto, è necessario che, da un punto di vista sostanziale, i fatti narrati dal lavoratore siano sempre rispondenti al criterio della veridicità, mentre, da un punto di vista meramente formale, l’esposizione avvenga senza mai travalicare i parametri della correttezza, del decoro e della pertinenza espressiva (cfr. Cass. sent. n. 17784/2022).
In particolare, per la giurisprudenza di merito, il limite della pertinenza risulta rispettato laddove la critica risponda ad un interesse meritevole che, nel rapporto di lavoro, è individuato nelle condizioni dello svolgimento della prestazione e nelle dinamiche dell’impresa (Trib. Ancona sent. n. 175/2021).
Da ultimo la Corte di Cassazione – ordinanza 18 dicembre 2024, n. 33074 – ha affrontato la questione del licenziamento intimato ad un lavoratore, membro del Comitato Tecnico ANPAC, al quale la società datrice di lavoro aveva contestato di aver rilasciato, tramite una lista di distribuzione informatica, dichiarazioni in aperto contrasto con il vincolo fiduciario, gravemente lesive dell'immagine aziendale. Ebbene, ad avviso della Suprema Corte, l'azione di critica contestata dalla società datrice non costituisce giusta causa di licenziamento, in quanto il contesto dell’esternazione riferita al lavoratore era limitato ad un determinato gruppo di persone e non ad una moltitudine indeterminata.
Diversamente, in una precedente occasione – ordinanza 22 dicembre 2023, n. 35922 – la Cassazione ha ritenuto, invece, legittimo il licenziamento del dipendente per aver pubblicato, sulla bacheca di un social network, alcuni commenti gravemente lesivi dell’immagine e del prestigio dell’azienda e dell’onorabilità di persone legate ad essa. Le affermazioni del lavoratore suggerivano, nella fattispecie, un clima torbido all’interno dell’azienda, con accenni a minacce e pressioni. La Corte di Cassazione ha confermato la decisione del Giudice di primo grado, sostenendo la validità della giusta causa di licenziamento. Pur riconoscendo il diritto di critica del lavoratore, la Corte ha sottolineato che tale diritto non consente al dipendente di ledere l’immagine del datore di lavoro facendo riferimento a fatti non oggettivamente certi e comprovati.
Pertanto, sebbene il lavoratore sia garantito dagli artt. 21 e 39 della Costituzione, il diritto di critica deve bilanciarsi con il rispetto dei diritti e delle libertà altrui e con la tutela della persona umana, garantita dall’art. 2 della Costituzione. L’uso di espressioni “intrise di assai sgradevole volgarità”, senza una seria finalità divulgativa e finalizzate unicamente a ledere il decoro e la reputazione dell’azienda e del suo fondatore, è un comportamento che supera i limiti della correttezza formale.
In definitiva, per la giurisprudenza di legittimità, la critica avanzata da un lavoratore nei confronti del proprio datore sfocia in un illecito disciplinare laddove non rispetti i requisiti della verità, continenza e pertinenza.
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