Pubblicato il: 24/05/2025
L’ordinamento nazionale riconosceva, invero, come madre soltanto la donna che partoriva, non considerando tale la cosiddetta “madre intenzionale”, quella cioè che aveva dato il consenso alla pratica fecondativa e si assumeva la responsabilità genitoriale insieme alla madre biologica. La Corte ha, invece, stabilito che questa esclusione è in contrasto con gli articoli 2, 3 e 30 della Costituzione, in quanto vietare il riconoscimento della madre non biologica significa:
- discriminare ingiustamente i bambini nati da coppie omogenitoriali, violando il principio di uguaglianza formale e sostanziale;
- ledere l’identità personale del bambino e negargli un diritto fondamentale, quello di avere uno status giuridico certo e stabile sin dalla nascita;
- ledere la piena tutela e responsabilità genitoriale, senza alcuna giustificazione sul piano razionale;
- pregiudicare il diritto del minore a ricevere assistenza, educazione e mantenimento da entrambi i genitori, nonché a mantenere rapporti significativi con le rispettive famiglie di origine.
La lesione, dunque, di diritti costituzionalmente garantiti postula la dichiarazione di illegittimità costituzionale, la quale, come argomentano i Giudici, si fonda su due rilievi: «la responsabilità che deriva dall'impegno comune che una coppia si assume nel momento in cui decide di ricorrere alla PMA per generare un figlio, impegno dal quale, una volta assunto, nessuno dei due genitori, e in particolare la cosiddetta madre intenzionale, può sottrarsi; la centralità dell'interesse del minore a che l'insieme dei diritti che egli vanta nei confronti dei genitori valga, oltre che nei confronti della madre biologica, nei confronti della madre intenzionale».
Va osservato che la sentenza della Consulta non interviene sul tema delle condizioni di accesso alla PMA in Italia (questo resta regolato da altre norme), ma si concentra sull’aspetto del riconoscimento legale del legame genitoriale. Principio ispiratore del pronunciamento è, quindi, la centralità dell'interesse del minore, che viene perseguito attraverso un duplice percorso: affermando il suo diritto a essere cresciuto ed educato nell'ambito della famiglia d'origine e assicurandogli un ambiente familiare stabile e armonioso, in linea con il principio affermato all'art. 8, paragrafo 2, dalla Convenzione di Strasburgo del 1967. Del resto, negando il riconoscimento alla madre intenzionale, si perviene a contraddire "l'elasticità del modello costituzionale", che riconosce – attraverso l'art. 2 Cost. – le formazioni sociali all'interno delle quali si esplica la personalità dell'individuo.
Qualora vi sia una coppia di persone che ha intrapreso il percorso genitoriale, affermano i Giudici, non è sufficiente il solo riconoscimento del rapporto con la madre biologica, sussistendo il «diritto del minore di mantenere un rapporto con entrambi i genitori», diritto riconosciuto a livello di legislazione ordinaria (art. 315 bis, primo e secondo comma, e 337 ter, primo comma, cod. civ.) e affermato altresì da una pluralità di strumenti internazionali e dell'Unione europea (art. 8, comma 1, della Convenzione ONU sui diritti del fanciullo). In altri termini – come già osservato dalla medesima Consulta nella sentenza n. 33 del 2021 – ad essere in discussione è unicamente "l'interesse del minore a che sia affermata in capo a costoro la titolarità giuridica di quel fascio di doveri funzionali ai suoi interessi che l'ordinamento considera inscindibilmente legati all'esercizio di responsabilità genitoriali. Doveri ai quali non è pensabile che costoro possano ad libitum sottrarsi".
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