Pubblicato il: 11/08/2025
Cosa si intende per luce regolare, e in cosa essa si distingue dalle vedute? Quando una luce è, invece, irregolare? E cosa sono le "luci di tolleranza"? Possono dar luogo a usucapione?
Procediamo con ordine.
La vicenda processuale ha inizio in Sicilia, dinanzi al Tribunale di Barcellona Pozzo di Gotto, ove l’attore citava in giudizio taluni vicini, sostenendo che costoro avessero aperto vedute dirette od oblique sul suo fondo e domandandone, conseguentemente, la condanna all’eliminazione delle aperture e al risarcimento danni.
I convenuti si difendevano e, in via riconvenzionale, chiedevano accertarsi l’avvenuta usucapione del diritto di servitù di veduta.
L’azione, previa integrazione del contraddittorio, aveva esito positivo in primo grado: la domanda veniva accolta e i convenuti condannati, in solido tra loro, alla chiusura delle aperture, nonché (limitatamente a due di essi) alla realizzazione di un parapetto debitamente distanziato rispetto alla proprietà di controparte, oltre al risarcimento del danno.
La situazione veniva ribaltata in appello, perché la Corte di secondo grado rigettava la domanda di chiusura delle aperture poste sulla parete del c.d. “pozzo luce” dell’edificio dei convenuti, condannando due di essi ad innalzare fino a due metri il parapetto del loro balcone al confine con la proprietà dell’attrice.
I convenuti ricorrevano in Cassazione.
Passiamo ora ad esaminare il contenuto dell’ordinanza della Corte.
Il Collegio osserva come la Corte territoriale avesse ritenuto configurabile l'esistenza di una veduta, nonostante l’accertata presenza di ostacoli che, quanto meno, limitavano fortemente l’inspectio e la prospectio, vale a dire ciò che contraddistingue le vedute rispetto alle luci, a mente dell’art. 900 del c.c..
Ricordiamo infatti che, ai sensi della norma codicistica appena citata, le vedute sono le aperture che “permettono di affacciarsi e di guardare di fronte, obliquamente o lateralmente”, mentre le luci si "limitano" a dare passaggio all'aria e alla luce.
Tornando alla pronuncia in esame, la ricostruzione fatta dai giudici di secondo grado “collide apertamente con il consolidato insegnamento di questa Corte, secondo cui "Per configurare gli estremi di una veduta ai sensi dell'art. 900 c.c. conseguentemente soggetta alle regole di cui agli artt. 905 e 907 c.c. in tema di distanze, è necessario che le cd. inspectio et prospectio in alienum, vale a dire le possibilità di affacciarsi e guardare di fronte, obliquamente o lateralmente, siano esercitabili in condizioni di sufficiente comodità e sicurezza" (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 18910 del 05/11/2012, Rv. 24113, che ha ritenuto inidoneo, a tal fine, un parapetto alto 90 cm., poiché tale altezza non corrisponde a quella del petto, ma a quella del basso ventre di una persona di ordinaria statura, e quindi è insufficiente per garantire un affaccio sicuro; negli stessi termini, cfr. anche Cass. Sez. 2, Sentenza n. 7267 del 12/05/2003, Rv. 562925 e Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 3043 del 10/02/2020, Rv. 657095, secondo le quali l'affaccio deve essere esercitabile in condizioni di sicurezza)”.
In secondo luogo, prosegue la Cassazione, la Corte d’Appello aveva ritenuto che le aperture, realizzate dai convenuti in luogo della parete cieca originariamente prevista, costituissero luci, in quanto non idonee a consentire la inspectio e la prospectio sul fondo del vicino.
Tuttavia – osserva la S.C. – le luci, per essere regolari, devono corrispondere ai requisiti di cui all'art. 901 del c.c. e, quindi, essere munite di un'inferriata idonea a garantire la sicurezza del vicino e di una grata fissa in metallo le cui maglie non siano maggiori di tre centimetri quadrati, avere il lato inferiore a un'altezza non minore di due metri e mezzo dal pavimento o dal suolo del luogo al quale si vuole dare luce e aria, se esse sono al piano terreno, e non minore di due metri se sono ai piani superiori, ed avere il lato inferiore a un'altezza non minore di due metri e mezzo dal suolo del fondo vicino, a meno che si tratti di locale che sia in tutto o in parte a livello inferiore al suolo del vicino e la condizione dei luoghi non consenta di osservare l'altezza stessa.
In ogni altro caso, si configura una c.d. luce irregolare, rappresentata da un'apertura che, pur non avendo i requisiti della veduta, perché non consente inspectio e prospectio in condizioni di sicurezza, non corrisponde al paradigma normativo previsto per la luce regolare.
Di ciò avrebbe dovuto tenersi conto nel giudizio di merito, anche con riferimento al tema dell'usucapione, rileva la Corte.
Sul punto, la Cassazione ribadisce il proprio consolidato orientamento, secondo cui:
- l'apertura effettuata nel muro della propria casa rientra nella categoria delle cosiddette luci di tolleranza, quando la stessa non è conforme ai requisiti dell'art. 901 c.c. In tal caso, il proprietario del fondo vicino può sempre pretenderne la regolarizzazione;
- il possesso di tale apertura, in quanto sprovvisto di titoli e fondato sulla tolleranza del vicino, non può condurre all'usucapione di una servitù di luce, difforme dal tipo ammesso dalla legge (e qui la Corte cita una serie considerevole di precedenti conformi).
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